martedì 4 novembre 2008

SI PUO' ECONOMIZZARE L' ECONOMIA ?

Grazie all' amica Ziaele per questo preciso resumè.

Un Mercato dal volto umano
Incontro col professor Stefano Zamagni sul tema: “Si può umanizzare l’economia?”

“Porre il mercato al servizio dell’uomo”. Questo l’obiettivo proposto venerdì sera dal professor Stefano Zamagni alla platea senigalliese che aveva riempito la Chiesa dei Cancelli. Coloro che, tra i presenti, si aspettavano una lezione di tipo accademico oppure una sorta di vademecum del consumista virtuoso, saranno usciti piuttosto delusi dalla sala. Zamagni, ordinario di Economia Politica all'Università di Bologna e presidente (dal 2007) dell’Agenzia per le ONLUS di Milano (fonte: agenzia per le onlus), si è preoccupato soprattutto di sfatare alcune mistificazioni che gravitano attorno all’idea comune di Economia di mercato, alla quale, nello scenario mondiale contingente, non pare possibile contrapporre un’alternativa convincente.
A cominciare dalle sue origini: in contrasto con la dottrina più diffusa, Zamagni ha affermato come l’economia di mercato non sia il prodotto naturale delle teorie di Adam Smith applicate alla rivoluzione industriale settecentesca. Il professore ha fatto invece risalire questo tipo di impostazione alla predicazione francescana del XIII e XIV secolo, quando l’obiettivo non era la massimizzazione del profitto, ma l’inclusione di tutti i soggetti nel processo produttivo. Il fondamento teorico di tale prescrizione è l’idea che “l’elemosina aiuta a sopravvivere, non a vivere; vivere è produrre”. È qui che nasce la divisione del lavoro, da cui deriva il coinvolgimento dei marginali nel processo produttivo, conformemente alle loro possibilità.
Citando dall’ultimo intervento pubblico di Giovanni Paolo II, che risale al novembre 2004, Zamagni ha sottolineato come “la discriminazione degli individui in base all’efficienza non sia meno disumana della discriminazione basata su razza, etnia o religione”. L’evoluzione moderna dell’economia di mercato, invece, ha reso inattaccabile il principio per cui gli efficienti possono permanere nel sistema, mentre gli inefficienti debbono esserne esclusi. Zamagni ha definito darwinista quest’impostazione, a cui ne ha contrapposta una civile, cioè inclusiva di tutti. Data questa premessa, l’umanizzazione del mercato si identifica con il passaggio dalla prima alla seconda.

Ma quale significato va attribuito all’aggettivo umano in questo contesto? Per Zamagni, esso va riferito a tutto l’uomo, nella sua tridimensionalità: la componente materiale, quella socio-relazionale e quella spirituale dovrebbero esser sempre considerate simultaneamente, senza che nessuna risulti dominante sulle altre due. La distorsione operata dall’economia di mercato moderna nasce proprio qui, ovvero dal ridimensionamento degli aspetti socio-relazionali e spirituali in favore di quello materiale. Tutto ciò ha conosciuto un’amplificazione inedita nell’ultimo quarto di secolo, ovvero nel periodo che ci siamo abituati a chiamare della globalizzazione. È qui che l’esclusione ha raggiunto il suo picco, soprattutto a causa del sempre maggior divario tra “ricchi” e “poveri”: a fronte di una triplicazione del valore della ricchezza mondiale, la distanza tra i più ed i meno abbienti è quadruplicata nell’arco di tempo considerato, smentendo le costruzioni teoriche di chi, come Kuznets, pronosticava una fase di ascesa della disuguaglianza nel primo periodo dello sviluppo economico, cui avrebbe dovuto necessariamente far seguito una fase di redistribuzione sempre più equa della ricchezza. Tale scenario comporta pesanti implicazioni politiche oltre che economiche: la mancanza di equità mette a rischio sia la pace sia la democrazia. Il difetto di partecipazione politica, infatti, è conseguenza quasi inevitabile della discriminazione economica.

Il problema della riumanizzazione dell’economia nasce, come detto sopra, dall’enfasi eccessiva attribuita alla componente materiale dell’uomo. Il soddisfacimento dei bisogni ad essa afferenti è divenuto preponderante, a scapito delle esigenze socio-relazionali e spirituali. Questo dato di fatto è la base del cosiddetto paradosso della felicità: la convinzione che il benessere si raggiunga attraverso l’acquisizione, mediante il denaro, di una quantità crescente di beni materiali viene smentita dall’insoddisfazione che ne deriva per l’individuo. La causa di questo viene individuata dagli studiosi nella confusione tra utilità (intesa come rapporto uomo-cosa) e felicità (descritta come rapporto uomo-uomo): i beni materiali sono in grado di soddisfare la prima, ma non garantiscono in alcun modo la seconda; questo anche in considerazione della non commensurabilità delle due categorie: i beni immateriali sono illimitati, quelli materiali no. Nella logica economica che ci siamo comunemente abituati ad adottare, l’aumento di reddito fa crescere la nostra capacità di acquisire utilità: in nome di ciò, siamo quindi disposti a sacrificare il tempo destinato alle esigenze socio-relazionali e spirituali, ovvero alla nostra felicità. Ciò traspare anche dall’organizzazione degli ambienti di lavoro, improntati all’efficienza molto più che all’accoglienza; una considerazione che vale sia per l’aspetto logistico sia per quello interpersonale.

Qual è la via di uscita? Secondo Zamagni, è necessario recuperare l’idea originaria di bene comune, travisata nel tempo e spesso confusa con il machiavellico bene totale (in cui il fine prevale su ogni altra considerazione) o con quel bene collettivo, ravvisabile ad esempio in contesto sovietico, che accettava il sacrificio del singolo individuo a vantaggio della comunità. In concreto, si tratta di recuperare un attivismo civile prima ancora che sociale, poiché l’assistenzialismo non elimina la pratica dell’esclusione; anzi, in un certo senso la legittima. A tal fine, è importante recuperare la responsabilità dell’imprenditore, il quale dovrebbe impegnarsi a creare un ambiente di lavoro che sia produttivo, ma che consenta l’esplicitazione delle dimensioni socio-relazionale e spirituale della persona.

In risposta ad alcuni quesiti sollevati dal pubblico, Zamagni ha poi operato una distinzione tra beni di giustizia, che nascono come risposta ad un dovere preciso (la giusta mercede dell’operaio), e beni di gratuità, che tendono al riconoscimento di un mutuo legame tra gli individui posti in relazione economica. Sulla base questi ultimi, che sono in grado di soddisfare il bisogno di felicità, è possibile costruire la cosiddetta economia del dono, la quale non esclude il profitto, ma non fa nemmeno di quest’ultimo l’unico fine del suo operare. In effetti, si tratta del principio fondamentale su cui poggiano le ONLUS.

Infine, replicando ad un ascoltatore che chiedeva un parere sulla teoria della decrescita, Zamagni ne ha individuato i pregi nella diagnosi, ovvero nell’analisi critica della situazione economica attuale, mentre ha espresso la sua perplessità rispetto alla terapia proposta da questa corrente: secondo il professore, il problema non è arrestare la crescita, ma indirizzarla verso obiettivi di versi dall’aumento della riccheza materiale.

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