mercoledì 18 febbraio 2009

IL PARCO DELLA CESANELLA: UN BENE O UNA MERCE ?


Quello che sta accadendo a Senigallia è il frutto di un

pervicace rifiuto ad un progetto pubblico dell’uso della

città e del territorio.

E’ quello che avviene quando la visione ed il futuro di

una città viene affidato, in modo totale, alla crescita

di una economia basata esclusivamente sulla rendita

fondiaria-immobiliare e dove la ricchezza (per pochi)

nasce dall’assalto di un bene(il territorio) che è di tutti,

con differenza stratosferiche tra il valore investito ed

il valore realizzato.

E’ giocoforza che, con una visione esclusivamente

economicistica dell’urbanistica, poi il risultato sia

lo scombussolamento urbanistico, l’aggressione al

territorio e,non ultimo, il disagio dei cittadini.

L’edificazione al parco della Cesanella è l’attacco,

nemmeno tanto velato,agli spazi pubblici e agli usi

pubblici della città L’erosione degli spazi pubblici

ormai ha raggiunto la velocità di una smottamento.

Avevamo già avuto modo di vederlo nel Piano del

Centro Storico dove una Piazza è stata individuata

come sedime fabbricabile (magari con una spolveratina

di social housing. Da dare ai privati?) e con un nobile

palazzo già in odore di mini-appartamenti, l’abbiamo

visto con la Variante del Lungomare dove aree

demaniali debbono fare da corredo ad un intervento

privato di edilizia per alto censo e fitness,l’abbiamo

visto con lo Stadio Comunale dove , per reperire

parcheggi mai richiesti ai privati che si sono dilettati

in centinaia di appartamenti nell’intorno, si è dovuto

sacrificare il campo di allenamento e lo si è visto anche

nella Variante Arceviese strizzando l’occhio al nuovo

mercato del terziario avanzato .

Anche qui, come oggi, a dire che la parte fabbricabile

era già stata assegnata in tempi lontani. Beh, qui va

a finire che anche per il pubblico i “diritti edificatori”

vengono idolatrati come “l’idolum fori” al pari dei privati.

I diritti edificatori sono quella bizzarra teoria

(su cui la Cassazione più volte si è espressa)

secondo la quale quando si è attribuita una capacità

edificatoria ad un’area, poi questo gentile “cadeau”

non può essere tolto al proprietario ( è l’esaltazione

della rendita parassitaria più che del profitto.

E pensare che il vincolo per pubblica utilità decade

dopo soli cinque anni!)).

L’amministrazione può fare ricorso, beninteso,

a questo disinvolto uso di “diritti”, ma almeno

la smetta di cianciare sulla “rottura col passato”,

su “new-deal urbanistico”, su nuova attenzione all’ambiente.

Si è dato inizio ad uno sciagurato e aberrante

meccanismo di fare fronte alle ristrettezze contingenti

di bilancio ed alle spese correnti sacrificando il territorio ,

ritenuto un valore secondario, e tra l’altro senza nessuno

obbligo (come prevedeva la Legge 10/77) di re-investire

su di esso.

Questo processo infernale ha portato addirittura,

nel caso dell’area di San Gaudenzio, a trattare un

vincolo ricognitivo (cioè valore di bene per sua

intrinseca natura) con la sufficienza di un semplice

vincolo “funzionale o urbanistico”, sempre per ragioni

di cassa.

Questi ultimi otto-nove anni hanno visto esaltarsi

a ritmi vertiginosi il consumo del suolo favorendo

da un lato l’espansione urbana e dall’altro l’espulsione

dalla città di una larga fetta di senigalliesi, che si sono

dirottati sui paesi limitrofi ( Passo Ripe, Casine e

Pianello di Ostra, Ponte Rio, Marina di Montemarciano).

C’è di che domandarsi perché l’edilizia senigalliese

(che non conosce crisi) non è per i senigalliesi.

l consumo del suolo ha portato anche

“al consumo della mobilità.”, dove ad un inalterato

numero di spostamenti si registra un sensibile aumento

della lunghezza delle percorrenze (all’Assessore Ceresoni

questo dice qualcosa ?).

Insomma qui c’è un territorio che viene considerato

non più come un bene ma come una merce, che deve

produrre profitto economico.

Però, piccola ma importante notizia, qualcosa

sta muovendosi.

Cresce dal basso una spinta, una resistenza

di base da parte di chi, in comitati, in gruppi,

in associazioni, non ci sta più alle chiacchiere e alle

facili promesse delle lingue biforcute.

Preferisce piuttosto “saltare la finestra che mangiare

la minestra (avariata)”, e considera il territorio,

il paesaggio, il lascito culturale della città come un

“bene comune e un bene primario” da difendere al pari

dell’aria, dell’acqua, della luce. Nelle prossime battaglie

non si accontenteranno più dei soliti segnali di fumo.


articolo tratto dal sito

www.versuscomplanare.com / Ing. Stefano Bernardini

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